IL CORAGGIO DI UNA DONNA NELLA CURA DEGLI AMMALTI
Come si chiama? Mi chiamo Irdana Rivas; Da quanto tempo vive in Italia? Da diciannove anni; Da dove viene? Dalla Repubblica Dominicana; Da quando lavora con i malati? Quando abitavo nel mio Paese, facevo questo lavoro con i bambini disabili; dopo di essermi trasferita in Italia, ho iniziato a lavorare con gli anziani e i malati oncologici e ora sto accompagnando una signora malata di SLA. Penso di continuare il lavoro che ho iniziato prima, ma qui in Italia vedo che è più impegnativo e difficile, per il tipo di pazienti di cui mi devo occupare infatti il mio compito sarebbe aiutare le famiglie a gestire i loro malati. Chi l’ha presentato questa paziente con l’ SLA? Una fisioterapista di nome Barbara, alla quale sono molto grata perché è stata lei a fidarsi di me e a introdurmi tramite il lavoro in questo mondo, che devo dire è impegnativo ma affascinante. Secondo lei, qual è l'approccio giusto che un assistente dei malati deve avere? Dalla mia esperienza posso dire che bisogna aprire il cuore, non avere uno sguardo di pietà, nel confronto del malato, perché sarebbe una presa in giro nei loro confronti, capisco che è una parola forte, ma è così; il malato si deve sentire libero, una persona proprio come te, perché la malattia a volte viene percepita come una punizione o una condanna, e se ancora viene l’operatore sanitario a guardarlo dall'alto in basso, questo non va bene. La cosa più bella che si può fare con una persona che soffre di una malattia è guardarla negli occhi, tenerle la mano.
Quindi il linguaggio della comunicazione è determinante? Certamente sì, l'empatia si esprime attraverso gesti concreti, ad esempio possiamo dire che quando si tiene la mano a un malato gli si dà sicurezza, non solo a lui, ma c'è uno scambio, è come dire ti apro la porta, sei benvenuto a casa mia, questo è quello che il malato fa con le persone che lavorano con lui; quando gli si tocca la mano è come se si aprisse la porta della sua malattia, è come un invito ad accompagnarlo nella sua sofferenza. Secondo lei, quali sono i sentimenti di chi circonda (entourage) una persona con una malattia così importante come la SLA? La famiglia è molto importante, parlo di quello che sto vivendo io in questo momento, perché sono vicino a una persona con questa malattia. Devo dire che traggo forza da lei e da suo marito perché sono due persone meravigliose, forse pensano che io stia aiutando loro ma in realtà stanno aiutando loro me, infatti il marito che si prende cura della moglie mi ricorda il passo biblico della lettera ai Corinzi 13 (inno all’amore), quando vedo quest'uomo la sua dedicazione, con un amore così grande che diventa una vera e propria testimonianza. Cosa significa per lei la malattia? Per me è come il buio, sarebbe come una luce che scompare, nel senso che c'è la scienza, che è andata avanti, ci sono le macchine che ti aiutano come il respiratore, c'è il computer per comunicare, ma la persona non è completamente libera, vive come in una prigione da una parte, ma dall'altra ha la parte essenziale intatta: la sua anima, quindi la malattia mette al buio il corpo ma non l'essenza della persona che continua ad essere luce. Come vede espressa concretamente questa realtà? Nel fatto che la persona che sto accompagnando in questo momento è una donna coraggiosa che mi insegna ogni giorno a dare valore alla vita, nessun'altra persona mi ha incoraggiato nella mia vita come lei, mi spinge ad amare la vita. Secondo lei, è necessario lavorare in équipe, cioè medici, infermieri, assistenti, familiari? Penso che sia necessario lavorare come una comunità, tutti dobbiamo aiutarci l'un l'altro, la persona che sembra meno importante può dare il suo contributo. Quali sono le caratteristiche comportamentali che più la colpiscono di questa paziente? Io la chiamo "Angelo biondo", le caratteristiche che ha questa signora sono il coraggio, l'amore per la vita, ci dà forza e voglia di vivere, ci dice di non arrenderci mai, sorride sempre, vuole comunicare, scherza, mi dice di prendere la patente e io le dico che ho paura e lei mi prende in giro. Il contatto con questa realtà concreta con un malato di SLA ha cambiato la sua vita? Moltissimo, perché vedo che la vita vale la pena di essere vissuta, ma non solo per me, anche per gli altri, non siamo soli in questo mondo. Questo significa che sente che questa malata di SLA dà la vita anche a lei? Si. Certo, non si arrende e lo trasmette a chi le sta vicino. Va detto che ci sono persone che hanno paura, altre che si nascondono o spariscono per non affrontare questa realtà così impegnativa, cosa ne dice? Come ho sottolineato prima, bisogna ascoltare il proprio cuore, se si ha paura, bisogna analizzare sé stessi, perché a volte la paura non viene di confrontarsi con la malattia, ma di noi stessi. Di cosa ha bisogno oggi un malato? Il malato ha bisogno di amore, di rispetto della sua persona, ma anche della malattia cioè della situazione che sta vivendo in quel momento. Come si fa effettivo questo rispetto nel comportamento? Ascoltando la malattia della persona, non irritandosi, avendo pazienza e dicendo sempre la verità, senza falsità, i malati non hanno bisogno di sentirsi dire bugie, sono avanti in tante cose, c'è un linguaggio tra l'operatore e il malato e ci si capisce con rispetto e senza ambiguità, loro si fanno capire, quindi: ripeto, pazienza ed onesta. Quale messaggio vorrebbe lasciare alla società, alle famiglie che hanno una persona cara con una malattia grave? Che ascoltino perché purtroppo oggi nessuno ascolta, che si prendano il tempo di ascoltare e di curare i loro cari, non c'è bisogno di parlare, parlano gli occhi e, come dicevo prima, parlano le mani, accarezzate i vostri cari, a coloro che curano o assistono malati dico: create un rapporto di rispetto e di amicizia senza troppa confidenza, toccateli, fategli sentire che siete presenti in quel momento, questo gesto a volte è più efficace delle medicine. Riesce a far capire questa realtà a chi circonda lei? Certo che riesco, ho una figlia di 16 anni e parlo sempre con lei, le dico che non so da dove prendo il coraggio per fare questo lavoro, anche se so da dove viene il coraggio: dei pazienti che assisto, perché credo che questo lavoro sia una vera vocazione. Quattro anni fa mi chiamò un medico per accompagnare una notte un malato oncologico di 53 anni, che non voleva che nessuno si avvicinasse a lui; andai da lui e mi presentai, lo guardai e lui mi disse: "Sa che mi hanno parlato di lei, ma le dirò subito che non credo in Dio". Gli ho detto: no, non sono venuta per convincerti di nulla, non preoccuparti, sono venuta solo per farti compagnia e per passare la notte qui con te, lui mi ha guardato e io mi sono avvicinato lentamente, qualcosa dentro di me mi diceva di prendergli la mano, e così ho fatto, mi ha chiesto di andare in bagno, io gli ho preso la mano, e poi mi ha detto: sai io credo che Dio esiste. Quando si tratta di persone malate gravi che se ne vanno, non ha paura del vuoto? La morte non è così brutta come molti credono, la morte e la vita sono una realtà da gestire; io credo nella vita eterna anche negli angeli di cui parlo spesso con la signora di cui mi occupo, ma devo dire che abbiamo altri angeli che sono le persone che ci circondano e si prendono cura di noi
Il direttore della pastorale della salute della diocesi di Acqui, ha fatto una intervista a un’operatrice sanitaria, che lavora con i malati in condizioni di vulnerabilità. Ecco la testimonianza che rende un piccolo omaggio alle donne che assistono in silenzio. Per non cadere nella dimenticanza