IL SUICIDIO ASSITITO: UN PENDIO SCIVOLOSO?
La “medicalizzazione” della morte provoca un doppio movimento: da un lato, un accanimento terapeutico, in cui l'obiettivo è prolungare la vita del morente fino alle ultime conseguenze, e dall'altro, il rifiuto di questa pratica crudele attraverso il suicidio assistito o l'eutanasia.
In definitiva, questo comportamento porta con sé l'ideologia nichilista che nega la natura spirituale della persona umana e la sua apertura, attraverso la morte, all'ordine eterno (trascendenza).[1]
In questi giorni abbiamo assistito a tentativi di legiferare sulla pratica del suicidio assistito, difendendo paradossalmente la dignità della vita; dobbiamo dire che questo tipo di legislazione è ingiusta perché definisce indebitamente la dignità, riducendola solo all'esercizio quasi assoluto dell'autodeterminazione, che è senza dubbio un principio etico importante, ma che coinvolge il principio della libertà e della responsabilità. Legiferare a favore della morte in queste circostanze non solo mina il principio fondamentale della vita umana, ma ferisce le relazioni umane, la fiducia reciproca e la giustizia; Papa Francesco afferma a questo proposito che “il contesto socio-culturale odierno sta progressivamente erodendo la consapevolezza di ciò che rende preziosa la vita umana. Infatti, la vita è sempre più valutata per la sua efficienza e utilità, al punto da considerare “vite scartate” o “vite indegne” quelle che non si conformano a questo criterio. In questa situazione di perdita di valori autentici, vengono meno anche gli ineludibili doveri di solidarietà e fraternità umana e cristiana. Infatti, una società merita di essere definita “civile” se sviluppa anticorpi contro la cultura dell'usa e getta; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se pratica e tutela attivamente la solidarietà come base della convivenza”.
Dal punto di vista clinico, i fattori che maggiormente determinano la richiesta di eutanasia e suicidio assistito sono: il dolore incontrollato e la mancanza di speranza, indotta anche dall'assistenza umana, psicologica e spirituale, spesso inadeguata, fornita da chi si prende cura del paziente.
Ecco perché in questo contesto va rivalutata la virtù della speranza, che aiuta a reagire offrendo una sorta di dinamismo che rafforza non solo chi soffre ma anche chi accompagna quello stato di sofferenza; invece di cadere in una falsa accondiscendenza, che a volte è la via più facile, bisogna offrire al paziente l'aiuto indispensabile per uscire dalla sua disperazione. È ormai scientificamente provato che le cure palliative possono prevenire la sofferenza e migliorare la qualità della vita.
L'esperienza lo conferma: “le suppliche dei malati molto gravi che talvolta invocano la morte non devono essere intese come espressione di un reale desiderio di morire; in realtà, si tratta quasi sempre di richieste angosciose di assistenza e affetto”. Oltre alle cure mediche, ciò di cui il malato ha bisogno è di calore umano e amore di cui tutti coloro che gli sono vicini: parenti, amici, medici e infermieri, possono e devono circondarlo”.[2]
Il malato che si sente accerchiato da una presenza amorevole, umana e cristiana supera ogni forma di depressione e non cade nell'angoscia di chi, al contrario, si sente solo e abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte. L'uomo, infatti, non vive il dolore solo come un fatto biologico, che viene gestito per renderlo sopportabile, ma come il mistero della vulnerabilità umana in relazione alla fine della vita fisica, evento difficile da accettare, dato che l'unità di anima e corpo è essenziale per la persona umana.
Per questo è fondamentale rivalutare la trascendenza dell'essere umano e l'umanizzazione della medicina, soprattutto per chi deve accompagnare le persone che soffrono di una malattia cronica o sono nella fase terminale della vita; l'operatore sanitario deve “saper essere” attento a chi soffre l'angoscia del morire, e deve anche consolarlo con un discorso aperto alla speranza, instaurando una relazione empatica con il paziente, che lo renda capace di allargare gli orizzonti della vita oltre l'evento morte. Chi chiede di morire, in realtà, chiede di essere aiutato a vivere in modo diverso; a volte gli basta poter toccare con mano che il suo dolore è condiviso da altri per elaborarlo positivamente, ed è per questo che un'analisi empirica della situazione raccomanda agli ospedali di non isolare i malati terminali, perché la sola esperienza di un reparto in cui tutti i pazienti soffrono in modo simile, è in grado di attivare in ognuno di loro un'incredibile capacità di resilienza di fronte alla depressione e alla sofferenza.
Da un punto di vista etico, il suicidio assistito si trova in un pendio scivoloso, perché viviamo in un'epoca in cui i progressi tecnici, scientifici e medici hanno reso più facile e accessibile combattere il dolore o vivere più comodamente in generale, soprattutto nel mondo occidentale; perciò risulta paradossale favorire l'eutanasia o il suicidio assistito, per evitare tale sofferenza, forse bisognerebbe capire che non è il dolore ad essere diventato insopportabile, ma piuttosto che il vero problema è che sono venute meno le ragioni del vivere e si è perso il senso che si dovrebbe dare alla sofferenza e alla morte.[3]
[1] G. Brambilla, Riscoprire la bioetica. Capire, formarsi, insegnare, Rubbettino 2020, 397–398.
2 «Lettera Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita (14 luglio 2020).
[3] E. Sgreccia, Manuale di bioetica. Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero 2012, 919–920.

La morte è una realtà molto complessa e difficile da comprendere in alcune circostanze. In epoca moderna abbiamo assistito a un processo di degradazione del significato fondamentale della vita umana e, di conseguenza, della morte. La teoria greco-cristiana che definiva la morte come la separazione dell'anima dal corpo è oggi in crisi, poiché si cerca di ridurre il fenomeno della morte a un aspetto puramente scientifico o biologico, ignorando una delle dimensioni più importanti della persona: la trascendenza.