DISABILITA & EUTANASIA
In uno scenario costellato di rivendicazioni di libertà sempre più stringenti e discutibili, allestito sotto l’impulso pressante di richieste sociali di produttività, perfezione, ricerca spasmodica dell’approvazione di terzi, la raffigurazione del malato non autosufficiente non può che tingersi di colori cupi e il punto di fuga dell’intera rappresentazione diviene, tendenzialmente, eutanasico.
Il pittore, al contempo artista e primo spettatore della sua creazione, imprime all’opera la sua profonda inquietudine: il tocco del pennello, deciso e fermo, traccia segni marcati e ripetuti di sofferenza. La tavolozza dei colori perde ogni gamma di sfumature. Si annullano le regole figurative e viene meno ogni schema cromatico. La paura del dolore e il terrore della disabilità si fondono in un connubio che non lascia scampo a fraintendimenti: protagonista è un oppressivo e terribile senso di “peso”.
Inizia a insinuarsi, così, in modo tanto infido quanto erroneo, un asserito “diritto” a decidere della propria o dell’altrui morte. Il porre fine a un’esistenza segnata dalla malattia è l’aspirata e decretata “buona morte”. È l’evoluzione prevedibile di un’anomalia nel processo attentivo che, anziché focalizzarsi sul valore dell’essere, si proietta, pericolosamente, sulla qualità dell’esistenza. Emerge, cioè, in maniera lampante, l’errore prospettico.
Se il pittore, invece, ponesse al centro la persona vivente e non le sue compromesse funzioni? Che cosa accadrebbe se si recuperasse la visione antropologica? Quali i risvolti artistici di un razionale pensiero focalizzato sull’intima natura umana e, dunque, avulso da ragionamenti soggettivi e opinabili?
È il riconoscimento dell’ontologica dignità della persona vivente l’inevitabile punto di svolta del ragionamento e del conseguente agire; il centro di proiezione autentico per una rappresentazione realistica. Le capacità devono essere correttamente relegate a estrinsecazioni della persona, non a elementi fondativi della stessa.
L’anima razionale, che informa il corpo, mai si corrompe a fronte del deterioramento delle capacità; ed è proprio per questo che la compromissione delle funzioni non può assolutamente scalfire il valore della persona; un valore inestimabile, nel pieno benessere come nella più grave e irreversibile disabilità. Gli elementi di disturbo iniziano, così, ad abbandonare la visuale.
Il malato è lì, nella sua essenza più vera, nel suo immutato e immutabile valore che non necessita di conferme e che non ammette condizioni; è proprio lì, sopra quel letto divenuto la cattedra di una lezione magistrale di presa di cognizione, e conseguente rispetto, della sua – e dell’altrui- preziosità intrinseca. Una vita fisica che va difesa; una libertà mai esente da responsabilità. Per questo la deleteria autodeterminazione fine a se stessa su un’esistenza giudicata di bassa qualità rappresenta un contesto gnoseologico irragionevole e aberrante dove la pietas è soppiantata da un fare pietistico; dove la compassione è falsità, perché lo sguardo, espressione di un desiderio dissimulato nei sotterfugi di un lessico ipocrita, non è teso al sollievo della sofferenza, bensì proiettato all’eliminazione del sofferente.
Una sofferenza che può e deve essere alleviata; un “pallio” che può e deve coprire le sanguinanti ferite umane.
“Sedare dolorem!” Questo il grido da percepire e recepire; questa la richiesta che dovrebbe annichilire le infondate e insensate rivendicazioni eutanasiche.
Quell’asserita libertà si scioglie nell’auto confutazione mostrando tutta la sua infondatezza anche nella paura di divenire, da malato dipendente, un peso per gli altri; poiché la paura è condizionamento, e il condizionamento è pura antinomia di libertà.
L’essere umano necessita e si nutre di relazioni. Caregiver e malato si donano nella reciprocità, riconoscendosi parte di un tutto in cui ciascuno si esprime nella prossimità all’altro, in maniera unica ed irripetibile: un caregiver che apprende nella dedizione e un malato che è lì a trasudare essenza autentica; quell’essenza vera capace di inondare, educare ed arricchire. È in quell’incrocio di vite che la complementarietà diviene forza, l’insegnamento una lezione appresa e feconda, il termine dell’esistenza un esito naturale da attendere ed accogliere, senza esasperazioni né anticipazioni. Le aberrazioni ottiche allora si dipanano e gli inganni prospettici vengono meno; tutto riacquista il suo ordine. Si ridimensiona, totalmente, il punto di vista.
Ecco che, improvvisamente, lo sguardo si allunga; la visione si amplifica; l’armonia cromatica si ristabilisce; la prospettiva cambia: la persona detiene la scena e l’eutanasia, inevitabilmente, si dissolve nella sua stessa terminologica contraddizione.
SE SOLO SI CAMBIASSE PROSPETTIVA